L'ipotermia come 5° anello nella BLSD

Pubblicato da webmaster | 07:36


isogna dar tempo ai reparti di medicina d'urgenza di dotarsi dell'attrezzatura che occorre, ma quando l'avranno acquisita, le persone che si riprendono da un arresto cardiaco avranno una prognosi migliore di quella odierna. E' stato dimostrato, infatti, che se i risuscitati vengono sottoposti a raffreddamento per alcune ore, il loro cervello può essere preservato dai danni che seguono l'arresto del cuore. Vale a dire che l'ipotermia riduce il rischio che questi pazienti debbano sopravvivere gravemente neurolesi. L'idea non è nuova, soprattutto a livello sperimentale, ma è stata di recente verificata da due studi clinici condotti ai due estremi del globo: in Europa e in Australia.

Le statistiche documentano che ogni anno in Europa sono 375.000 le persone colpite da arresto improvviso dell'attività cardiaca, generalmente per fibrillazione ventricolare. Una parte di costoro (la percentuale varia da meno del 5 al 35 per cento a seconda delle circostanze in cui si verifica l'arresto) viene rapidamente rianimata. A ripresa stabilizzata, peraltro, si constata spesso che i salvati hanno subito danni cerebrali irreversibili. Complessivamente, il 10-30 per cento di coloro che sopravvivono rimane gravemente invalidato.

In passato si pensava che i danni fossero provocati direttamente dall'anossia. Più tardi si è capito che questa non uccide così rapidamente le cellule cerebrali, ma ne altera i meccanismi funzionali, riducendone l'efficienza. Sicché, appena la perfusione si ristabilisce, il metabolismo cellulare si riattiva in maniera anormale tanto da sortire effetti catastrofici: è nelle ore e nei giorni che seguono l'arresto che le cellule vanno in necrosi. Ciò avviene attraverso una serie di passaggi potenzialmente reversibili: spostamento degli ioni calcio da uno all'altro compartimento cellulare, perossidazione dei lipidi e altre reazioni che coinvolgono i radicali liberi, fenomeni di citotossicità, alterazioni del DNA e infiammazione.

Nessun farmaco si è rivelato capace di fermare questo deterioramento progressivo; il quale, viceversa, può essere contrastato da un abbassamento della temperatura tale da rallentare le attività metaboliche (può fornire un ordine di grandezza la nozione che ogni grado centigrado in meno rallenta il metabolismo dell'otto per cento). I primi studi sull'ipotermia risalgono a molti anni fa, quando i primi cardiochirurghi andarono alla ricerca di un sistema per fermare il cuore, ma poi vennero accantonati per due o tre decenni. All'inizio degli anni novanta furono ripresi da Peter Safar, dell'Università di Pittsburgh, che studiò a fondo, in modelli animali, le reazioni dell'organismo all'abbassamento della temperatura. Vide innanzitutto che il raffreddamento deve essere instaurato lentamente, per non evocare brividi, termogenesi e scariche di catecolamine; deve essere contenuto entro limiti precisi, per non indurre aritmie ovvero coagulopatia e infezioni devastanti.

Safar elaborò uno schema operativo per raffreddare il corpo a 33-36°C che sperimentò nel cane. La sua terapia ipotermica permetteva di superare un arresto circolatorio completo di 10-12 minuti, seguito da riperfusione: al termine del trattamento, il cervello funzionava normalmente e appariva perfetto all'esame istologico. Gli esiti del trattamento ipotermico sono stati successivamente verificati, sempre in laboratorio, anche sulle cellule dell'ippocampo, sensibilissime all'ipossia.

Fino a oggi gli studi clinici nell'uomo sono stati per lo più retrospettivi e non controllati. Ma lo scorso febbraio il New England Journal of Medicine ha pubblicato due studi randomizzati e controllati che hanno valutato gli effetti del trattamento ipotermico sugli esiti neurologici, sulla mortalità e sulle complicanze dell'arresto cardiaco. Gli autori: Stephen Bernard dell'Ospedale di Dandenong e i suoi colleghi australiani e Michael Holzer della Universitätklinik für Notfallmedizin di Vienna e i collaboratori del Hypothermia after Cardiac Arrest Study Group, appartenenti a cinque diversi paesi europei.

I primi hanno sottoposto a ipotermia (33°C) la metà di 77 pazienti che erano stati colpiti da arresto cardiaco per la strada e che, dopo defibrillazione, erano rimasti in coma. I secondi hanno trattato con ipotermia (32-34°C) la metà di 136 soggetti che si erano ripresi da un arresto cardiaco protratto (in media per 21 minuti). In entrambi gli studi, l'altra metà dei pazienti è stata trattata come d'uso, in ambiente normotermico. Al termine del ricovero ospedaliero è sopravvissuto senza gravi deficit neurologici il 49 per cento degli ipotermizzati australiani e il 56 per cento di quelli europei, in contrasto con il 26 e il 39 per cento dei rispettivi controlli. Si deve aggiungere che a distanza di 6 mesi, fra gli europei è risultato vivo il 59 per cento dei trattati contro il 45 per cento dei controlli e che i primi non hanno riportato complicazioni a causa del raffreddamento.

L'ipotermia ha dunque dato importanti vantaggi in ambedue gli studi, che pure sono stati condotti secondo procedure differenti: previa curarizzazione (per evitare i brividi), i pazienti sono stati raffreddati con applicazione di ghiaccio da Bernard e con getti d'aria fredda da Holzer; il primo ha poi protratto l'ipotermia per 12 ore, il secondo per 24; nel gruppo australiano il processo di raffreddamento è stato iniziato 30 minuti (valore mediano) dopo la ripresa del battito ed è stato protratto per circa tre ore, nel gruppo europeo è stato instaurato dopo 105 minuti e prolungato per otto ore. Se ne deduce che il raffreddamento deve essere iniziato appena possibile, ma funziona anche se è relativamente tardivo e se impiega più tempo a raggiungere il valore desiderato.

Secondo gli autori la sperimentazione clinica della terapia ipotermica potrebbe essere effettuata non solo in caso di arresto cardiaco, ma anche in molte altre condizioni: ictus ischemico, lesioni traumatiche del cervello e del midollo, shock emorragico e, forse, nello shock settico e nell'infarto miocardico.

Massimo Obbiassi


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